Le mille sigarette accese e poi fumate freneticamente in panchina; le battute e i discorsi prolungati, ricchi di iperboli e proverbi, durante le interviste; il cappotto color cammello indossato più per scaramanzia, come amuleto portafortuna. Simboli indiscussi, veri e propri “marchi di fabbrica” se così si può dire, di un uomo che al calcio ha dato tanto e che resterà per sempre legato a Napoli e presente nel cuore dei tifosi partenopei. Bruno Pesaola, l’argentino naturalizzato napoletano, che nel capoluogo campano viveva ormai da anni, tanto da sentirsi a tutti gli effetti un figlio del Vesuvio.
Il leggendario “Petisso”, così chiamato perché piccolo di statura, se n’è andato lo scorso 29 maggio. Era prossimo ai novant’anni. Nacque ad Avellaneda, nella provincia di Buenos Aires, da genitori italiani che viaggiarono in Sudamerica alla ricerca di lavoro; sin da bambino mostrò la sua sfrenata passione per il pallone e crebbe col mito del River Plate. E coi “Milionarios” arrivò persino a giocare nelle giovanili, al fianco di un giovane Alfredo di Stefano e come allenatore aveva il monumentale Renato Cesarini, l’ex calciatore che, tra le tante, vestì anche il bianconero juventino e che diede il nome a quella famosa “zona” per i gol siglati nei minuti finali. Arrivò In Italia soltanto nel dopoguerra, approdando precisamente alla Roma. Ma, per un grave infortunio che gli costò la rottura di tibia e perone, pensò che la sua carriera fosse già giunta al termine e per questo passò in prestito al Novara, dove contro ogni aspettativa dimostrò di averne ancora per un bel po’. Dopo due stagioni si legò al Napoli: è qui che riuscì a conquistare in modo assoluto il pubblico; qui si distinse nettamente per il carattere e per il cuore che metteva in campo. Fu addirittura uno dei protagonisti nella vittoria per 2-1 sulla Juventus di Boniperti e Sivori nel dicembre 1953, gara che peraltro fu l’inaugurazione del nuovo stadio, il San Paolo. Tuttora, con ben 253 gettoni, è il quattordicesimo calciatore azzurro di sempre per presenze. Finita la carriera da attaccante, scelse di rimanere nel mondo del calcio e di diventare allenatore. Con questa nuova carica, ottiene risultati eccezionali e, soprattutto, i successi più importanti della sua vita. In primis, col Napoli: storica e impressa negli annali è senza dubbio la vittoria della Coppa Italia 1961/62, quando la squadra militava in Serie B, un record che ad oggi nessun’altra compagine è riuscita ad eguagliare; inoltre la Coppa delle Alpi del ’66 e la Coppa di Lega Italo-Inglese del ’76. Con il club azzurro, vanta 306 panchine, 237 della quali solo in campionato: anche questo, ancora oggi, è un primato assoluto. Altra tappa decisiva per la sua carriera da mister fu, sicuramente, con la Fiorentina, con la quale vinse, nella stagione 1968/69, il campionato maggiore. Il 30 maggio scorso si sono svolti i suoi funerali nella chiesa di Santa Chiara del centro storico partenopeo, dove in centinaia sono venuti a porgergli l’estremo saluto. Presente anche il club di De Laurentiis, nelle figure di Fabio Pecchia, Miguel Angel Britos e Grava con alcuni giocatorini del settore giovanile; molti ex compagni in mezzo al campo e calciatori allenati, tra i quali Vinicio e Canè; l’ex presidente Corrado Ferlaino e Mimmo Carratelli, ex giornalista de La Gazzetta dello Sport; il Comune di Napoli, con gonfalone e picchetto d’onore. Anche sul terreno di gioco le due società che, più di tutte, lo ricordano con affetto hanno voluto rendergli un ultimo omaggio: nell’ultima uscita stagionale, Napoli e la viola hanno dedicato un minuto di silenzio, giocando poi le rispettive gare col lutto al braccio, per il “Petisso” dalla grandissima grinta e dall’immenso amore per questo sport, che nonostante la bassa statura rimarrà per sempre un gigante del calcio italiano.