“NELLA STIMA VICENDEVOLE, LA BELLEZZA DELLO STARE INSIEME”

Convegno su S. Antonio Abate, nella parrocchia di cui il Santo è titolare. Relatore, il prof. don Francesco Asti

Interessante convegno su S. Antonio Abate, in occasione della Sua festa liturgica che si celebra il 17 gennaio: ad organizzarlo è stato don Agostino Sciccone, il giovane Parroco della parrocchia di cui il Santo è titolare. Relatore, il prof. don Francesco Asti, consultore teologo presso la Congregazione per le Cause dei Santi e Vice Preside della sezione S. Tommaso D’Aquino presso  la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. In primis, il Docente ha spiegato il significato religioso dei simboli posti vicino all’effigie del Santo, collocata nel  lato sinistro dell’altare, per chi accede nel tempio; il bastone è il simbolo del pellegrino che compie il cammino interiore, alla sequela di Cristo, leggendo e meditando la Parola di Dio; il maialino, considerato nell’antichità un animale impuro, simboleggia il diavolo; oggi potrebbe rappresentare le tentazioni da “tenere a bada”  da parte di chi fonda la propria vita sugli insegnamenti del Signore; il fuoco, nel deserto,  segnala la presenza di un pellegrino; chi da lontano lo avvista vi si avvicina e trova ospitalità. Così faceva S. Antonio: lo accendeva la sera per offrire alloggio ai pellegrini che percorrevano il deserto,  consentendo  loro di riscaldarsi nelle ore notturne, molto rigide.

Antonio, nato nel 250 d.C., viveva, ha evidenziato il Relatore, nell’agiatezza, essendo figlio  di ricchi contadini cristiani. Rimasto orfano prima dei vent’anni, possedeva un cospicuo patrimonio e una sorella minore a cui  badare. L’esortazione evangelica  “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri” lo spronò a compiere una scelta radicale:  distribuì metà  dei beni ai poveri e l’altra metà alla sorella, affidata a  una comunità femminile; poi scelse di vivere la sua vita nel deserto in preghiera, povertà e castità.  Anche noi, come il Santo, ha sottolineato don Francesco, “dobbiamo lasciarci interrogare dalla Parola di Dio”; S. Antonio Abate ci incoraggia non essere “freddi” ai suoi richiami, a non accontentarci del minimo comune denominatore (“pago le tasse”, amo mia moglie”, “ non faccio del male a nessuno”, “vado a messa la domenica …)), ma a “fidarci sempre più di Dio, mettendolo al centro della nostra vita”, per aprirci ad orizzonti vasti, alla grandezza degli ideali evangelici, a ricercare sempre quel di più che dia un senso sempre alto al nostro pellegrinaggio terreno. Attenti, perciò, a non imitare il giovane ricco, che, quando ascoltò la risposta del Signore, se ne andò via triste. Il Signore non vuole cristiani ”al 50%”. “Il Maestro di Galilea non era “dolce di sale”, urtava, non era accomodante; o Gli si dà tutto o niente. Lascia liberi di andare anche noi, non ci ferma”. Ma anche noi non possiamo sottrarci alla domanda: “E dove andremo”? ,  con la risposta che offre pienezza di senso alla nostra esistenza: “Tu solo hai Parole di Vita Eterna”. “Seguilo, dunque, dovunque vuole, anche quando la strada è in salita, anche quando gli altri non capiscono”..
La scelta di S. Antonio Abate di vivere nel deserto, ha posto in luce il Teologo, non è una “fuga dalle proprie responsabilità, Egli vi si reca per incontrare Gesù, quindi il deserto non è il luogo dell’aridità, della morte”: l’Antico Testamento racconta che il popolo israelita è stato condotto per 40 anni nel deserto da Dio verso la Terra Promessa. Nel silenzio del deserto, inoltre, ha spiegato don Asti, “si combatte con se stessi”,si mette a nudo la propria interiorità, tanto è vero che, oggi, si fa di tutto per non rimanere da soli. Ma non bisogna temere di confrontarci con noi stessi!  Nel silenzio, è vero, vengono alla luce le proprie fragilità, le debolezze, le mancanze, i problemi, ma, invece di scacciarli, “occorre lavorare con se stessi, seppure ciò risulti difficile, Nel deserto, infatti, S. Antonio Abate si confrontava con i problemi che lo assillavano, nel silenzio egli aveva modo di conoscere tutti gli angoli bui della sua vita, ma Egli li presentava a Gesù, per purificare i propri pensieri”. “Anche se il vostro peccato è rosso scarlatto, io lo rendo bianco come la neve”. Quindi, nessuna autoflagellazione: l’amore di Dio è più grande del nostro peccato. “Il deserto è la condizione che mi creo” ha puntualizzato il Relatore “per stare da solo con  me stesso davanti a Dio, dovunque sia: in casa, per la strada …, per chiedergli di essere purificato, di essere aiutato a vincere i pensieri negativi, le tentazioni”.

 Ed è nel proprio nel silenzio orante, ha proseguito don Francesco “che S. Antonio Abate capisce quanto sia necessario superare il proprio deserto interiore,ossia  la tentazione maggiore,  l’egoismo”. Così decide di aprirsi ai fratelli, rendendosi conto che “il lavoro più difficile non è  la lotta con se stessi, con i propri limiti, ma la relazione con gli altri”. Egli uscì, perciò, dall’isolamento dell’eremo, formò, su sollecitazione di tante persone comunità eremitiche e si dedicò a lenire i sofferenti operando, secondo tradizione, “guarigioni” e “liberazioni dal demonio”. “Anche nella relazione” ha rimarcato don Francesco Asti “si riconoscono le fragilità” ed è proprio la consapevolezza delle personali vulnerabilità ad aiutarci nel non cadere  nella facile  tentazione di giudicare, condannare, additare i difetti  e le debolezze altrui. Tutti abbiamo bisogno del perdono  e  della misericordia di Dio. Nelle comunità eremitiche, S. Antonio Abate comprese l’importanza di regole condivise, soprattutto della capacità di scusarsi a vicenda, animati dall’amore fraterno. Gesù, ha concluso il Relatore, “si fa presente al centro della comunità se insieme si gareggia nello stimarsi a vicenda (S. Paolo),  se ognuno, più che i difetti, riesce ad evidenziare gli aspetti positivi degli altri”, il bene, i doni di cui sono portatori.

 Antonio Botta

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