La morte della piccola Diana e l’uccisione del nigeriano Alika Ogorchukwu
Ci eravamo illusi tutti, anche il Papa: la pandemia, un evento terribile, che ha devastato corpo, cuore e mente dell’umanità, avrebbe purificato il nostro spirito rendendoci migliori, per la consapevolezza maturata nell’animo dell’uomo che nessuno di noi è un’isola, che “siamo tutti sulla stessa barca”, bisognosi di aiuto, di gesti di premura, di affetto reciproco. Ci siamo dovuti ricredere, e non solo per la guerra russo – ucraina in Europa!
Pensando a ciò che è accaduto prima a Diana, bambina di 18 mesi, abbandonata per sei giorni dalla madre in un appartamento milanese, e per questo morta di fame, di sete e di stenti, e poi ad Alika Ogorchukwu, 39 anni, sposato e padre di un bambino di 8 anni, ammazzato di botte in un’affollata strada di Civitanova Marche, si resta esterrefatti dalla crudeltà disumana esercitata su di loro per una causa banalissima. La mamma di Diana ha ammesso che la figlia sarebbe potuta morire, ma la bambina non le permetteva di sentirsi libera di programmare la sua vita come voleva, motivo per il quale, come già successo altre volte, dopo averla forse anche sedata con la benzodiazepina trovata accanto al lettino, aveva potuto trascorrere, svagandosi, una settimana nella bergamasca con il suo compagno. Ciò che ancora di più sconcerta è il fatto che durante il periodo di assenza, i due erano tornati per due volte a Milano per faccende che il compagno, ignaro dell’abbandono di Diana, doveva sbrigare; ma lei, senza provare alcun rimorso né preoccupazione per le sorti della figlia, non ha pensato di passare per casa per accertarsi delle condizioni di salute della piccola.
E poi: è possibile che la bambina non si sia svegliata nell’intero periodo di assenza e non abbia invocato, piangendo, la madre? Diana non si trovava in un’abitazione isolata di un picco centro cittadino, ma alla periferia est di Milano, in un palazzo condominiale. Nessuno ha sentito lamenti provenire dalla casa, mentre vi si passava davanti o si scendevano le scale? Ciò che ha tormentato la bambina, prima di morire, più che il caldo torrido, la fame e la sete, è stata la paura, anzi il terrore di sentirsi sola; specialmente in questi casi – gli psicologi dell’età infantile e gli insegnanti lo sanno bene – i piccoli vorrebbero vicino la figura che più li rassicura, li tranquillizza con un sorriso, un bacio, la stretta calorosa di un abbraccio, “la mamma, voglio mamma”. Dopo, solo dopo i bambini cercano l’acqua per bere, qualcosa da mangiare, il giocattolino preferito. E’ questo che strazia ancora di più il cuore e lascia sgomenti: un’atrocità inflitta ad una figlioletta per una banalità. E’ evidente, infatti, una enorme sproporzione tra l’agghiacciante morte di Diana e la causa fasulla, banale, appunto, che l’ha causata.
Ugualmente, lacera l’animo e si resta scioccati pensando all’uccisione dell’ambulante nigeriano: ammazzato a mani nude, con il supporto della sua stampella che gli occorreva per deambulare. E ciò è accaduto, cosa che indigna e fa inorridire ancora di più, mentre l’orribile scena di aggressione selvaggia si svolgeva in una strada del centro, percorsa da molti passanti, tra l’altro anche filmata con cellulari e condivisa. Anche in questo episodio, come in quello precedente della piccola Diana, scombussola la sproporzionalità tra ciò che è accaduto, morte per violenza estrema, e la causa che l’ha determinata: essendo Alika, venditore ambulante di accendini, aveva “importunato” l’aggressore con la sua insistenza nel chiedergli di comprarne uno, rivolgendosi, sembra, anche alla compagna di costui, con l’espressione “bella”.
Come spiegare tutto ciò? Mi chiedo se la “banalità del male”, espressione coniata dalla filosofa Arendt per spiegare il genocidio dei nazisti (in particolar modo riferita ad Adolf Eichmann, responsabile di aver organizzato il trasporto di milioni di ebrei – e non solo – nei campi di concentramento per la Soluzione Finale), non stia contagiando lo spirito umano, come il Covid sta facendo con gli organismi degli esseri umani. Arendt con tale espressione intendeva dire che Eichmann non fu un “mostro senza morale”, ma compì atti orribili solo per “incoscienza”, incapace, in qualche modo, di capire la realtà malvagia dei suoi atti. La morte inflitta, soprattutto degli innocenti, è sempre qualcosa di riprovevole, eppure pare, dopo la prima reazione emotiva di condanna e di compassione per le vittime, che ci si stia abituando alla tragicità degli atti di uccisione, fino al punto di arrivare a riprendere con gli smartphone gli atti osceni su persone, in special modo deboli, commessi con umiliazioni verbali, insulti offensivi, percosse, violenze e uccisioni efferate. E’ successo ciò anche con il nigeriano Alika!
Da gennaio 2022, altre 30.000 decessi si sono verificati in Italia per contagio da Covid, ma pare che questo dato non faccia più notizia, vivendo come se la pandemia non fosse mai accaduta. Finora le strutture ospedaliere, sempre per l’emergenza sanitaria, non sono riuscite ancora a completare lo screening a favore dei pazienti, malati di tumori, di cardiopatie gravi …, che nel periodo del lockdown non hanno potuto essere monitorati con l’aggravio delle loro condizioni di salute, eppure di ciò non v’è più notizia sui media. C’è da riflettere: se al male, senza che ce ne rendiamo conto, ci stiamo assuefacendo, allo stesso modo in cui ci stiamo abituando a convivere con il Covid, va posto un argine o dobbiamo rassegnarci alla “banalità del male”?
Antonio Botta