Il mestiere di attore come scelta di vita: Marco Palvetti ci racconta il suo percorso.

Desiderare di vivere la vita di un altro è qualcosa di perverso e paradossale. Lo sa bene il giovane attore Marco Palvetti che, dopo avercelo svelato, ha provato a farci guardare più da vicino il suo mondo, rivelando come non possa fare a meno dello scambio costante che c’è tra il suo essere umano ed il suo essere attore. Vivere mille vite che non sono sue, ma che allo stesso tempo gli appartengono. Il perché di tutto ciò, nelle risposte che seguono.

1) Marco, quando hai scoperto il tuo interesse per la recitazione e come ti sei avvicinato a questo mondo?

Già alle scuole elementari mi piacevano molto le recite e recitare mi faceva divertire, oltre che stare bene. Per questo ho sempre preso parte a spettacoli amatoriali ed una volta anche ad un progetto scolastico per la creazione di un cortometraggio. Poi un giorno, all’ uscita da scuola, ricordo che allora frequentavo il terzo anno delle scuole superiori, mi capitò tra le mani il volantino di un corso di recitazione cinematografica: sentii subito di dover correre a casa per dire ai miei genitori che volevo fare l’attore. Quel corso mi ha aiutato a conoscere le scuole più importanti e cosa volessi fare della mia vita. Così, dopo aver riflettuto sulla possibilità di intraprendere un percorso universitario, dedicandomi allo studio della filosofia o della psicologia, decisi di tentare i provini per  entrare a far parte dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” a Roma. Le selezioni furono durissime, ma alla fine ce la feci.

2)Tu hai lavorato sia per il teatro che per il cinema. Quali credi siano le differenze maggiori trai i due ambienti e quale prediligi?

In realtà, credo non ci siamo differenze o meglio, tutto è legato alla sensibilità dell’attore e al modo in cui si percepisce il rapporto con il pubblico. E’ chiaro, trovarsi avanti alla macchina da presa  è diverso che stare di fronte agli occhi degli spettatori o ad un microfono in radio. Sta tutto alla sensibilità dell’attore e, per recuperare delle sensazioni, dei sentimenti, un gesto, un movimento, qualcosa che rappresenti un’esigenza del personaggio, della vicenda in quel preciso istante, il percorso da compiere è  sempre molto personale.  Quindi io non credo che ci siano differenze sostanziali, anzi, c’è uno scambio costante tra questi ambienti di lavoro.

3) A tuo dire, quali sono oggi le difficoltà più grandi con cui deve rapportarsi un attore italiano?

Anzitutto, bisogna definire bene cos’è un attore, perché credo che si faccia sempre un po’ di confusione. Troppo semplice definire un attore, troppo semplice definirsi un attore e purtroppo, da parte del pubblico, è troppo semplice definire ciò che trovano in tv. Spesso quelle che vediamo sono solo immagini che servono per richiamare all’ attenzione una determinata categoria di pubblico oppure ad accompagnare i pasti. E invece, non bisognerebbe mai dimenticare le responsabilità che ha l’attore all’ interno della società. Tornando alla domanda, le difficoltà maggiori si incontrano, senza dubbio, nel rapportarsi con il mercato che troppo spesso non guarda alla qualità, ma alla quantità. E così, un personaggio che esce da un reality, solo perché è già conosciuto, è già “famoso”, ha più possibilità di fare questo lavoro. Anche se, ci tengo a precisarlo, mi vergogno un po’ a definire “lavoro” quello che faccio. Per me è una scelta di vita e riguarda molto di più. Forse gli altri potrebbero definirlo come un mestiere, ma per me è una necessità, un’esigenza.

 

4) Cosa credi si debba fare per correggere questo sistema e dare nuova vita al teatro italiano? Sembra un po’ banale, ma io credo che bisognerebbe confrontarsi in maniera più intensa con la propria voglia di avere una  rivalsa a livello internazionale. Solo in questo modo, forse, potremmo renderci conto dei problemi che abbiamo qui in Italia e iniziare a cambiare qualcosa.

Tutto dipende da noi: dobbiamo portare in scena un qualcosa che non sia privo di necessità, e parlo di necessità umana ed espressiva.

5) Tra cinema, televisione e teatro, a soli 24 anni hai già compiuto un notevole percorso professionale. Qual è, però, la tua più grande aspirazione?

E’ chiaro che questa risposta vale in questo momento, ma forse potrei dartela anche tra cinquanta anni: spero di nutrire e di allenare quest’ esigenza, questa voglia che ho di fare quello che faccio. Non mi interessa la fama, mi interessa che sia riconosciuto un percorso, se fatto bene, e per questo mi faccio carico di tutte le mie responsabilità.

6) Napoli, la tua città, con il suo tessuto sociale multiforme e quella caratteristica di essere quasi una sorta di grande teatro a cielo aperto, ha influito in qualche maniera sulla tua formazione e sul tuo interesse per l’arte teatrale?

Credo che parlare di Napoli come un “grande teatro” , non sia appropriato. Per chi fa questo mestiere, lasciarsi andare ad una visione del genere diventa una lama a doppio taglio. L’essere napoletano ed avere tutte le caratteristiche tipiche dei napoletani non deve trasformarsi nel proprio limite. Ad esempio, io parlo benissimo il napoletano, mi piace, ma sono cosciente che è un mezzo al mio servizio. La napoletanità  non deve diventare un marchio. Le mie radici sono fondamentali, però mi rendo ben conto che devo anche andare oltre.

7) Attualmente sei impegnato con lo spettacolo “Odissè, in assenza di un padre”. Parlaci di questo progetto.

Questo spettacolo che è stato presentato in anteprima al Napoli Teatro Festival ed è in scena al Teatro Bellini dal 26 ottobre all’11 novembre, nasce da un’idea di Gabriele Russo. E’ una critica irrisolta, un urlo arrabbiato che vuole essere matrice di domande. Si presenta come un’opera aperta e i riferimenti all’Odissea sono pochi e tanti allo stesso tempo. Si ritrova il tema della mancanza del padre, ma è solo un pretesto per dire che la generazione contemporanea è alla ricerca di qualcosa, compie un viaggio interiore ed onirico, ma non si sa se alla fine si troveranno delle risposte.

8) A tuo avviso, da cosa deriva l’esigenza di conciliare temi primordiali della civiltà occidentale con la nostra contemporaneità.

In realtà, nello spettacolo non c’è un tempo, è qualcosa di atemporale. Così come la scena ed i costumi: non sono identificabili, non appartengono ad un’epoca. Si potrebbe parlare di non tempo e non ambiente. La scenografia è qualcosa di distrutto, come se fosse uno spazio interiore.

9) Che cosa significa per te interpretare il ruolo di un personaggio principale?

Qualcuno ha detto: “non  esistono grandi ruoli o piccoli ruoli. Esistono grandi attori e piccoli attori”. E’ chiaro, quella di Telemaco è una parte straordinaria ed io sono ben felice di interpretarla, ma quando mi rapporto con un personaggio, non considero mai la sua importanza. Mi concentro sulla sua vita e se tu consideri la vita, la rispetti per quella che è .Tutti i ruoli hanno la stessa cura, certo, significano cose diverse, ma la voglia di impersonarli resta sempre immutata.

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