Vi racconto gli anni della “grande illusione”, le conquiste, le delusioni.
Sono nato in Piazzetta Santa Croce, tra la farmacia di Maria Del Giudice, la Cappella del Carmine, il palazzo del Prof. Ferone e lo splendido monumento del Cifariello a Frà Ludovico da Casoria.
Tutto ciò mi fa vivere via Santa Croce come il solo luogo autenticamente metropolitano della Città di Casoria, il solo palcoscenico del vero carattere di Casoria, il solo spazio – dove nonostante le infinite metamorfosi di quel che ci sta dentro – si respiri la memoria collettiva della città. Nel suo accumulo, nelle sue stratificazioni di storia, la memoria individuale, il nostro essere casoriano per nascita o per vita, li solo trova un incastro in quella storia. So che a me succede.
Attraversando via Santa Croce e deviando un pò per via Cardinale Maglione ed un po’ per via San Mauro, mi capita di sentirmi “dentro” la storia dei miei “vecchi” che di qui è passata. Riaffiorano in me tempi e storie che non ho vissuto, ma stanno nella memoria del luogo e stavano nei racconti delle intelligenze che ho amato, di chi visse quel che era Casoria, sessanta, settanta anni fa, nel cerchio delle sue melanconiche mura.
Un cappuccino da Mugione in piazza o al Bar dello Sport era il “dopo cinema” (Casoria ne aveva tre: Rossi, Super Cinema e Italia, quest’ultimo, anche all’aperto) di coloro che avevano spasimato per Amedeo Nazzari e Silvana Pampanini. A quei tavolini si incontravano i politici di quei tempi: Raimondo Paone, i proff. Vinci e Tignola, il Notaio D’Anna, i medici Casolaro, Formicola e Dama, Carlo Obici.
Per via Marco Rocco (una volta via Roma), una leggenda metropolitana racconta ci sia passato il Pergolesi, prima di trasferirsi a Pozzuoli, scoprendo, qui da noi, il suo talento musicale.
Nel periodo del boom economico, in una Casoria ossessivamente monocentrica, il fulcro delle eleganze, dello shopping e del consumismo si è spostato in via Principe di Piemonte. La mutazione ambientale, sociale e d’uso di via Santa Croce, che è immediocrimento, è anche un seguire, nel loro fisiologico cambiamento, il carattere, la natura, la realtà di Casoria.
Una alla volta chiudevano il SuperCinema, l’Italia e il Rossi e molti gridarono allo scandalo e al tramonto della “chiazza” come “specchio” della città. La realtà non era affatto quella. La “chiazza” si adeguava: questione di metamorfosi sociale della città. Da luogo un po’ esclusivo di un paese prevalentemente agricolo, diventava un luogo metropolitano, il solo luogo autenticamente collettivo di una città che ha strade (zone molto differenziate dal punto di vista dell’identità sociale) come una sorta di mosaico. Ma che non ha – al di là della “chiazza” alcuno spazio che compatti il mazzo di carte, alcuna prospettiva che la rappresenti davvero.
In Piazza Cirillo passa la Città. Qui le carte sociali si mischiano. I vertici del reddito hanno la loro oasi di “ancien regime” “all’autostrada”.
Fanno crocchio all’uscita del palazzo municipale, i patiti della politica chiacchierata, consci che lo sfondo è sempre quello del populismo dei soliti noti.
Dalla piazza, nel 68 e nel 72, si muovevano i marxisti – leninisti, quelli di lotta continua e potere operaio e i missini.
Se la piazza, nonostante la sua atmosfera non più ottocentesca, è il solo specchio unificante della città, la mia passione casoriana non ha soltanto questo punto di appoggio e di conforto. Nonostante la mestizia di una città di cantieri infiniti, imbruttita dallo sconcio di spazi mai recuperati dall’uragano dell’invasione industriale: nonostante la “città del fare” diventi una città del “non fare”. Il mio ha infiniti itinerari: le viuzze intorno alla Chiesa di San Mauro, la quasi clandestina via San Sebastiano, che da via Santa Croce entra quasi nelle sale dell’Ospedale di Casoria.
Poi ci sono gli altri vicoli di via Santa Croce, obiettivo di speculatori da piani di recupero, strane finanziarie con vecchi politici mai assopiti.
Conosco bene queste piccole strade della Casoria settecentesca; si incurvano quasi schive, nei pochi stradoni “carichi” della monumentalità della città.
I volgarotti anni del “miracolo economico”. Era quella del “miracolo” una Casoria che aveva la febbre della verticalità. Fu una febbre intensa, mia finita, nonostante la smania di grattacieli pagava un enorme tributo al traffico..
Quell’ambizione newyorkese ebbe un nome: Parco (?) San Paolo.
Una fiammata che illuse i casoriani vogliosi di New York, tarantolati dalla fede di vivere nei “piani alti”.
Oggi i grattacieli specchiano una città che non fa, specchiano il nulla che sta ai loro piedi, l’abbandono del centro antico, progetti, concorsi di idee e il rituale cassetto.