Devo parlare del “mestiere di giornalista”, quello che vorrei (un giorno non lontanissimo) fosse il mio mestiere, intendo quello a tempo pieno, insomma quello originale. Dicevo parlare del mestiere ma soprattutto degli ostacoli che spesso e volentieri si ergono sul cammino di chi vuole scrivere; parlo di regole non scritte, di linguaggio non verbale, di scienza non esatta che spesso ti lascia spiazzato e peggio ancora deluso.
Parlare del mestiere quindi, la cosa mi risulta assai complessa e così cito la “descrizione” di un illusa “scribacchina” (come lei stessa si definisce) collega di donnareporter.com. la scribacchina in questione è Ilenia Capilongo Broussard (questo nome non vi dirà nulla, in quanto è una dei tanti soldati semplici che al freddo ferro del fucile preferisce il freddo inchiostro della penna) che definisce così, in un pezzo sul Festival del Giornalismo di Perugia la professione: “Giornalismo come antipotere. Giornalismo come propaganda. Giornalisti come detentori della verità e diffusori della medesima. Giornalisti che vivono di parole, sebbene talvolta siano costretti a rimangiarsele, come disse qualcuno. Il giornalismo, oggi. Qualcosa di più di un semplice mestiere. O forse è proprio solo questo: un mestiere che è sempre più difficile riuscire a fare nel migliore dei modi e nelle migliori condizioni possibili.”
Mestiere che è sempre più difficile riuscire a fare nel migliore dei modi e nelle migliori condizioni possibili. Le condizioni già: A chi non è mai (o ancora) capitato di rincorrere il politico di turno che proprio non vuole parlare? Che a giochi fermi non ha piu’ tanta voglia di far sentire la sua voce e quindi eccolo dribblare come l’ala destra verdeoro Garrincha: appuntamenti, telefonate, e-mail e persino l’incontro per strada. Peccato però sia lo stesso politico che in tempi d’elezioni era pronto a sottoscrivere la tua candidatura al Premio Pulitzer pur di racimolare spazio e visibiltà.
A chi poi (mi riferisco ai cronisti sportivi) non è capitato un accredito negato in “zona cesarini” senza una ragione, magari per l’antipatia diffusa del tuo direttore nel settore, qualche domanda “scomoda” che hai fatto in passato, fatto sta che ti negano l’accesso. Non puoi fare il tuo lavoro.
Vorrei concludere l’intervento (facendo le dovute proporzioni) con l’ultimo caso, quello piu’ pericoloso dove addirittura in bilico non c’è la tua carriera ma la vita. Mi riferisco al rapimento
dei quattro giornalisti in Libia: Elisabetta, Giuseppe, Domenico e Claudio. Certo in tanti diranno:
“E’ uno dei rischi che si corre quando accetti questi lavori” come dargli torto, d’altronde chi prende parte a una guerra, quando il soldato dal freddo inchiostro della penna scende in campo, quando un giornalista decide di fare cronaca di sangue e alchimie mondiali affaristiche deve mettere in preventivo una fine poco felice.
Tommaso Lupoli