Mamma mia! ‘o terremoto
23 novembre 1980. E’ pomeriggio. Ho la casa piena di gente. Sono i familiari del dott. Gigino De Rosa, i coniugi Pascariello, mia madre e mia sorella. Sono venuti per le condoglianze. Quattro giorni prima era morto mio suocero, Nataluccio, ‘o duttore. Mia moglie sta offrendo il tè. Come si sa, in queste occasioni ognuno ricorda il defunto. Ed i presenti non si sottraggono alla regola. Raccontano episodi in cui Nataluccio ha dato prova di professionalità, bontà e disponibilità a visitare l’ammalato anche due volte al giorno. All’epoca diagnosi e terapie non si facevano per telefono. Stiamo tutti seduti intorno al tavolo del soggiorno. All’improvviso il lampadario comincia ad oscillare paurosamente e le sedie su cui siamo seduti, a ballare. Alzarsi e gridare all’unisono “ ‘o terremoto, fujimme” è un tutt’uno. Per fortuna la porta non è chiusa e non restiamo intrappolati. E’ un correre frenetico per i 100 gradini delle scale traballanti sotto i nostri piedi, preceduti da quelli che abitano ai piani inferiori. Mia moglie ed io teniamo per mano le nostre due figlie. Tutti gli inquilini dei 48 appartamenti si sono riversati urlando nel cortile, invocando la Madonna ed i santi protettori personali. Un gruppo di donne recita il rosario. Ci guardiamo sgomenti. Stralunati. Increduli. “Steve ‘int ‘a cucina, jie steve fòr’ ‘o balcone e steve jenne abbascio.” Attanagliati dalla paura e nell’impeto della fuga perfino quelli che normalmente si esprimevano in italiano usano il dialetto. Gli eventi funesti come il terremoto affratellano e ci si libera delle sovrastrutture culturali. Alcune ore dopo, quasi all’imbrunire mi azzardo a ritornare a casa mentre moglie e figlie cercano di dissuadermi per paura degli sciami. Non posso lasciare la porta aperta. Entro nel soggiorno esposto ad ovest e trovo il pianoforte munito di ruote in mezzo alla stanza, qualche quadro storto o caduto ed alcuni mobili scostati dalla parete. Segno che il sommovimento ha avuto, almeno nel mio caso, un andamento est-ovest. Per il resto la casa, tranne per alcune sedie che nel trambusto erano state rovesciate, è in ordine. Fa freddo. Prendo coperte e maglioni e ritorno nel cortile.
Mi sento chiamare. Mi volto e vedo il dottor De Rosa che mi chiede della sua famiglia. Sa che è venuta da me. Lo rassicuro che sono incolumi. “Pinù”, mi dice, “stevo ‘ncopp’all’autostrada (via Principe di Piemonte), ‘E palazze si vasavano”. Restiamo in strada fino a notte fonda non sapendo che fare. Di ritornare a casa non se ne parla. Decidiamo di dormire in macchina, sotto i platani dove di solito. Quelli che decidono di tornare a casa, vanno a letto vestiti, compresa mia moglie, pronti alla fuga. Il giorno dopo, il 24, vado dal mio amico Alfonso, ’o professore ‘e matematica, e mentre si parla del disastro in Irpinia, della confuse notizie sui crolli, dei morti e dei paesi coinvolti, vedo l’albero del giardino che si muove in modo innaturale. Non è solo la chioma ad inclinarsi come per un soffio di vento, ma anche il tronco. E’ uno degli sciami sismici più forti. Inforco la bici. Pedalo veloce verso casa ed incrocio gente che occupa il centro della via. Non so quante persone si sono recate in Irpinia in aiuto dei terremotati. Ricordo un giovane medico casoriano diretto a Sant’Angelo dei Lombardi per dare una mano. Alcuni nipoti di mia suocera arrivano da Bassano del Grappa con tende ed indumenti. E’ una gara di solidarietà nord-sud. Come cambiano i tempi!